Vivere oltre il tempo
Quando il corteo fece il suo ingresso nella piazza principale, le campane della piccola chiesa, in quel paesino ai piedi della grande montagna, avevano appena ultimato di suonare mestamente. La bara di noce si ergeva sulle spalle di quattro robusti giovanotti. Uno ad uno tutti i paesani si accodarono e, bisbigliando fra di loro, si diressero verso il piccolo cimitero ai margini del paese.
Don Peppe Russo, stimato ed unico barbiere di quel paese, stava raggiungendo la sua ultima dimora terrena. Attraverso il coperchio di noce poteva guardare lo splendido cielo azzurro. Quante volte si era seduto sull’uscio del suo locale e, al suono del suo organino, si era lasciato trasportare dai ricordi ammirando il correre delle nuvole, nel limpido pezzo di cielo che si spalancava ai suoi occhi.
Quella mattina sentiva su di se l’attenzione di tutti i paesani.
Per anni avevano varcato la soglia della sua barberia. Seduti sull’unica poltrona o sulle sedie di legno, che sapevano di antico, si erano raccontati le loro vicissitudini e le chiacchiere di paese. Avevano parlato di quel paese che man mano stava morendo. Abbandonato dai giovani che partivano per studiare o per cercare lavoro e lasciato dai vecchi che raggiungevano i loro padri oltre il confine della vita
Ogni tanto, visto che nessuno dei clienti aveva fretta, sospendeva il suo lavoro, tirava fuori il suo organetto e suonava i motivi allegri della sua terra. Ancora sentiva nelle orecchie il saluto cordiale che riceveva al bar quando, prima di aprire il suo locale, si recava a prendere il caffè.
Mentre sorseggiava il suo caffè, lo apostrofava, come al solito, Carmelo il sacrestano.
- allora, Peppe o’ sgarro, quante rasoiate daremo oggi? -
Quel soprannome, tirato fuori dopo una incauta rasoiata data, agli inizi di carriera, sulla guancia di un paesano, proprio non gli andava giù. Come tutti però, doveva fare buon viso a cattivo gioco. I soprannomi, in paese, erano un marchio di fabbrica, qualcosa di più importante del cognome, che rimaneva nei secoli per riconoscere i figli e i nipoti. Lui, figli non ne aveva perché non si era sposato ma, suo malgrado, aveva dovuto accettare quel soprannome.
Forse era meglio “o’ sgarro”, termine noto ai guappi, che qualcosa d’altro.
Dopo il caffè e l’acquisto del giornale, si recava ad aprire bottega. Tirava su la saracinesca e indossava il suo camice, si sedeva sull’uscio e accendeva la prima sigaretta in attesa del primo cliente.
Non finiva neanche di fumare che arrivava il solito, mattiniero, Ciccio Bruno, o’ raffinato. Era un noto avvocato che, all’arrivo della senilità, aveva lasciato il suo studio ai figli ed era ritornato in paese con la moglie. Sempre impeccabile nel suo abito di lino bianco, il bellissimo bastone e con in testa un borsalino nero.
-buongiorno Peppe, allora la facciamo sta barba?- e si accomodava sulla poltrona.
Neanche il tempo di mettergli al collo l’asciugamani che cominciava la mitragliata di notizie aggiornate.
-hai sentito di Rosina a’ faina?,sembra che abbia una tresca con il dottore - Come al solito, quando parlava o’ raffinato, il discorso era orientato sul piccante.
- li hanno visti entrare in un motel, in città - e si dilungò in particolari che sembrava conoscere nei minimi dettagli.
Erano quelli i discorsi che Peppe meno gradiva, gli piaceva di più parlare dei problemi del paese o dei problemi dei giovani.
In paese i giovani erano pochi e per tutti era valida la stessa regola :
“un ragazzo di uno sperduto paesino, solo studiando, ha qualche possibilità di affermarsi nella vita ”. Così studiavano tutti, ragazzi e ragazze e, poiché in paese esisteva solo un liceo, per completare gli studi, dovevano trasferirsi in città o addirittura in un’altra regione.
Fra non molto anche quel liceo sarebbe scomparso, inghiottito dalla mancanza di linfa giovanile.
L’argomento giovani, quando toccava a Peppe iniziare un discorso, era affrontato con foga. Si rendeva conto, man mano che gli anni passavano, che quei giovani non tornavano più in paese, ma si stabilivano altrove. A lui toccava sempre di più, fare la barba a volti scavati che gli trasmettevano un senso di profonda tristezza.
- Dobbiamo fare qualcosa, se aspettiamo l’intervento dei politici, in paese non rimarrà più nessuno - .
Per tutta risposta otteneva solo un alzata di spalle. Cosa potevano fare per cambiare la vita, mica una rivoluzione?.
L’argomento era molto difficile da affrontare ed allora, dopo un po’, si lasciava cadere il discorso e si passava ai soliti pettegolezzi.
- avete visto come si è ancor di più dimagrito Carmelo mezzo chilo, da quando si è messo con quella brasiliana? -.
Gli sfottò e le allusioni si sprecavano e si sprecarono fino a quando, senza che se ne accorgessero, Carmelo, seduto fuori dell’uscio, non aveva ascoltato tutto e li aveva apostrofati in malo modo togliendo loro il saluto.
A Peppe o’ sgarro, non solo aveva tolto il saluto, ma anche l’appannaggio mensile delle barbe e del taglio di capelli che, da quel giorno, andò a portare ad un barbiere in città.
Peppe, dopo quell’episodio, che aveva creato non pochi problemi, preferì non lasciare più la sedia fuori dell’uscio.
La vita in paese, nel suo monotono scorrere, appiattiva le giornate e le rendeva tutte uguali. Ogni tanto accadeva qualcosa che rendeva diverso il correre delle ore, come quando la povera Carmela la culona, perse la vita nella piazza principale.
Peppe aveva aperto da poco la sua barberia quando arrivò Carmelo o’ sacrestano rosso in viso.
- Correte, un camion ha buttato sotto Carmela la culona. È rimasta schiacciata -.
Nicola Russo, detto caronte, perché era il becchino del paese, si alzò di scatto dalla poltrona e, con il sapone ancora sul viso, corse verso la piazza. Carmela era una sua cugina.
Don Peppe calò la saracinesca e corse anche lui. In piazza c’era un assembramento di persone che Minico, il vigile, cercava di tenere lontano, in attesa dei carabinieri che arrivarono, di lì a poco, dal paese vicino.
Per tutto il giorno e per tutta la settimana, nel salone di Don Peppe, non si fece altro che parlare dell’accaduto.
- si vede che l’autista non era di qui e non sapeva che noi siamo abituati a camminare in mezzo alla strada -;
- penso invece che Carmela stesse, come al solito, pregando mentre camminava e non si è accorta del camion -;
Ma su tutti i commenti fu lapidario Ciccio o’ raffinato,
- Sentite a me, quello, l’autista, si è distratto guardando il fondoschiena di Carmela e non è riuscito a fermare il camion -.
Forse la sua versione era la più credibile, era meglio erò non diffonderla, qualcuno dei parenti poteva offendersi perché stavano scherzando su una disgrazia.
Dopo quell’incidente passò molto tempo prima che fosse data nuova materia ai soliti discorsi e ai soliti pettegolezzi.
Man mano che il tempo passava Peppe si accorgeva sempre più che i clienti diminuivano e che le sue mani cominciavano a perdere il loro solito ritmo.
Aveva cercato, per molto tempo un ragazzo di bottega per insegnargli il mestiere ma, a parte qualcuno che non ci stava con la testa, nessun giovane aveva voluto seguire la sua strada. Ora rimpiangeva di essere rimasto scapolo. Se si fosse sposato, forse avrebbe
avuto un figlio maschio e gli avrebbe potuto insegnare il mestiere. Si ricordò della regola per i giovani del paese e fermò i suoi pensieri colmi di se e di ma.
Ora l’argomento principale delle conversazioni nella barberia, era il problema di don Peppe.
- ma come vuoi trovare qualcuno se i giovani vogliono tutti andarsene? -, diceva Gerardo o’ luparo mentre si accomodava nella poltrona.
- se avessi venti anni di meno, imparerei io a fare barba e capelli -, rispondeva Nicola caronte dalla sedia in cui si era accomodato, per leggere il giornale, in attesa di fare la barba.
Ma don Peppe non era per niente rassegnato a chiudere definitivamente bottega.
- e poi voi dove andrete a fare la barba e a chiacchierare e spettegolare? -.
No, non poteva finire con lui l’arte del barbiere in quel bellissimo e maledetto paese. Bisognava assolutamente trovare un sostituto, un giovane che avesse voglia di continuare quel vecchio mestiere, arido di guadagni ma ricco di vita.
Per quanto si desse da fare, l’impresa sembrava essere sempre più difficile anche perché l’età avanzava e cominciava a mancare l’energia di un tempo.
In paese la vita continuava il suo lento e monotono corso. I giovani ritornavano solo durante l’estate e riempivano di vita la grande piazza.
Nei pomeriggi assolati, all’ombra degli alberi che la circondavano, al tavolo del bar, Peppe o’ sgarro, al solo scopo di alleviare la solitudine della sua casa, e non perché fosse un grande appassionato, passava le ore di libertà dal lavoro a giocare a carte con i suoi amici. Non si giocava solo a carte, si discuteva e si litigava sugli argomenti più disparati. La vittoria di una squadra a pallone, l’ultimo provvedimento del sindaco o l’ultimo pettegolezzo sulle donne del paese.
Anche Rosetta Cavallo, detta da tutti sproccola a causa della sua esile figura, non fu risparmiata.
- Carmelo o’ fungaro è stato visto in compagnia di sproccola proprio l’altro ieri nella piana ai margini del paese -, diceva
Ciccio o’ raffinato, mentre calava un asso, in quella mano di briscola.
- sicuramente non erano funghi quelli che stavano cercando -.
- ma perché hai calato l’asso, non lo sai che non ho briscole? - diceva inviperito Gerardo o’ luparo. - sei la solita schiappa -.
Cominciava allora la litigata su chi fosse realmente la schiappa e chi il giocatore. Di solito la litigata finiva a carte all’aria ed il
quartetto si scioglieva. Peppe si recava ad aprire la barberia e, per passare ancora un po’ di tempo prendeva il suo organino e suonava le ballate di paese.
Come al solito si riprometteva di non sedere più a un tavolo per giocare a carte ma, immancabilmente, il giorno dopo era al solito posto. Cos’altro si poteva fare, nei pomeriggi, in quel paese dimenticato da Dio?.
Nelle sere d’estate, dopo cena, si sedeva al tavolo del bar per gustare lentamente una deliziosa coppa di gelato. Gli piaceva tendere l’orecchio per ascoltare i discorsi dei giovani. Tutti discutevano degli studi, della bellezza delle città dove vivevano e dei loro piccoli e grandi problemi. Nessuno accennava ad un eventuale ritorno in paese.
Più di qualche volta aveva cercato di parlare con loro ma, appena sentivano il mestiere che faceva, tutti gli chiedevano come poteva sopravvivere visti i pochi abitanti.
- per me non è una questione di soldi, amo il mio mestiere, mi fa sentire utile ai miei paesani -.
- sarà bello per lei, ma per noi rimane un mestiere vecchio come il cucco e privo di guadagni. Meglio fare il curatore di immagine, rende molto di più -, si affrettavano a rispondere per tagliar corto.
L’impresa di trovare il suo sostituto era impossibile. Quei giovani erano lontani dal suo stile di vita, ora erano quasi cittadini. Nessuno di loro portava nel cuore la vita di paese e a nessuno sarebbe mai venuta la voglia di ritornare, per vivere ai piedi della montagna. Anche l’ultimo ragazzo che aveva preso in bottega, si era rilevato una grossa delusione e don Peppe si stava rassegnando alla chiusura della barberia. I suoi paesani avrebbero fatto la barba in casa o si sarebbero recati in città. Per il taglio dei capelli sarebbero diventati clienti di Rosetta a’ parrucchiera che andava casa per casa a pettinare le donne e che era brutta da morire.
In un freddo pomeriggio invernale in cui don Peppe stava male ma aveva voluto comunque aprire bottega, la vita cominciò a dare i suoi primi segnali di affanno. Gli anni ormai c’erano e per don Peppe erano arrivati anche gli acciacchi, la sua mano era diventata tremante e per lui era difficile anche tirar su la saracinesca, visto che non aveva voluto dotarla di motore.
- Troppi soldi e troppa tecnologia -, aveva detto a chi glielo aveva consigliato.
Quel pomeriggio sembrava che il paese fosse stato abbandonato da tutti, per strada non passava nessuno ed il freddo entrava da tutte le fessure. Don Peppe si era accomodato sulla poltrona da barbiere ed aveva cominciato a strimpellare con il suo organetto.
Mentre era intento a suonare sentì al petto un tremendo dolore. Voleva alzarsi dalla poltrona ma non ci riuscì, vide il suo caro organetto scivolare a terra e la luce sembrò spegnersi, poi più nulla.
Quando si risvegliò non era più sulla poltrona ma in un letto, non era il letto di casa sua, le lenzuola erano bianchissime ed odoravano di pulito.
Alzò lo sguardo e due occhi su un volto d’angelo lo fissarono.
- state tranquillo, vi hanno portato qui due giorni fa dal vostro paese -
Era una giovane dottoressa. Gli spiegò che aveva avuto un attacco di cuore che aveva superato abbastanza bene. Ora stavano facendo tutte le terapie e gli esami del caso.
- ora va tutto bene ma non dovete affaticarvi -.
A Peppe o’ sgarro la raccomandazione sembrava superflua poiché a stento riusciva a girare lo sguardo, ugualmente la tenne a mente per tutto il periodo della permanenza in rianimazione.
La permanenza non durò molto e dopo un po’ fu messo in corsia per una breve convalescenza.
Molti paesani vennero a trovarlo e i soliti amici lo misero al corrente di tutto ciò che era accaduto in paese durante la sua assenza.
Quel giorno l’aggiornamento sulle novità andò per le lunghe.
- devi riprenderti presto -, gli disse Ciccio o’ raffinato,
- siamo stanchi di farci crescere i capelli -.
Poi lo salutarono e si accomiatarono.
Con un breve sorriso ed un caldo arrivederci contraccambiò il salutò e li accompagnò lungo il corridoio.
Tornando nella sua camera notò, seduto su un panca del corridoio, un giovanotto che aveva in mano una foto. Lo sguardo era perso nel vuoto e i suoi occhi erano umidi. Fermarsi accanto a lui fu naturale, come il sedersi su quella panca. Per attaccare discorso non ci mise molto, era abituato alla conversazione.
- Alla fine, stare qui non è poi tanto brutto, l’importante è che questi professori ti facciano guarire -.
- io sono qua per la pompa - e si portò una mano sul cuore.
- e tu come mai sei qui? -
Il giovanotto aveva girato lo sguardo ed aveva fissato quel viso scarno, avanti con gli anni. Forse colpito dalla serenità di quel volto o forse perchè il destino aveva iniziato a scrivere la parte finale di una storia, fu portato a rispondere alla richiesta. Poi un susseguirsi di domande e risposte riempì la loro conversazione. Dopo circa un’ora don Peppe o’ sgarro sapeva tutto di lui. Si chiamava Antonio ed era rimasto da poco solo e, per qualche strano destino, il suo papà aveva fatto il parrucchiere per anni. Una disgrazia aveva portato via gli unici amori della sua vita , la moglie ed una bimba di otto anni. Ora per lui la vita non valeva più la pena di essere vissuta, infatti era in ospedale poiché aveva tentato il suicidio.
Don Peppe mise in gioco tutta la sua saggezza di vecchio di montagna, tutte le sue perle di vita, ma ancor di più la sua schiettezza e la sua gioia di vivere.
Gli raccontò anche del suo dispiacere di chiudere bottega e del rammarico che nessuno volesse continuare il suo mestiere.
In poco tempo era diventato il suo confessore, il suo unico riferimento ed il giovanotto si attaccò a lui come ad un ancora di salvezza.
Per vari giorni, fino a quando don Peppe non fu dimesso, furono inseparabili. Sulla panca o passeggiando nei giardini unirono le loro tristi vite fatte di solitudine da una parte e di sventura dall’altra.
- promettimi che verrai a trovarmi al paese, vedrai che da noi troverai amicizia e serenità -.
Don Peppe aveva usato un tono di supplica, ed il giovanotto lo salutò con la promessa che prima o poi lo avrebbe fatto.
Il ritorno al paese fu un trionfo. Tutti, anche chi era pelato, dovevano tagliare i capelli o fare la barba. Il suo organino riprese a suonare e le chiacchiere di paese ritornarono a riempire le sue giornate.
Il tempo continuò a scorre lento e don Peppe sentiva sempre di più la stanchezza che gli bloccava le mani nelle forbici. Ora il
pensiero della morte si insidiava sempre più nella sua mente, ma lui lo scacciava con il suo organetto.
Un mattino, mentre si trovava sull’uscio intento a suonare un bel valzer alzò lo sguardo e vide avvicinarsi un giovanotto che non tardò a riconoscere.
“Antonio, finalmente “ riuscì a dire solo questo, poi lo abbracciò.
Antonio gli spiegò che aveva preso la decisione di venire a vivere nel suo piccolo paese che, appena arrivato, gli si era spalancato come un luogo ove riposare con la gioia di vivere.
- se vuoi, visto che mio padre mi ha insegnato come tenere in mano le forbici, posso diventare il tuo ragazzo di bottega -.
Peppe o’ sgarro non rispose, ma le lacrime di gioia furono ben visibili sul suo volto.
Poi fu tutto un susseguirsi di giornate bellissime.
Antonio aveva appreso bene il mestiere e man mano cominciava anche ad apprendere le storie dei paesani e a chiamare le persone con il loro soprannome.
Sembrava che stesse lì da sempre e alla fine don Peppe riuscì anche ad insegnargli alcune note sull’organino. Antonio volle strafare e si mise a cantare. Fu alla prima strofa di un motivetto che si beccò il suo soprannome, che da quel giorno in poi fu, Tonino a’ stecca.
Il corteo stava mestamente imboccando il viale del piccolo cimitero, Don Peppe lanciò un ultimo sguardo alle tombe dei suoi
paesani ed alla fila di persone che lo seguiva. Lì davanti c’erano don Ciccio o’ raffinato e don Gerardo o’ luparo, mentre Nicola caronte gli stava preparando la dimora.
Girò lo sguardo e in un angolo del cimitero vide, appoggiato al muro, Tony in lacrime. Dopo un po’ lo vide avvicinarsi e gli sentì dire:
- addio don Peppe, state tranquillo, domani alzerò io la serranda e continuerò per voi, fino alla fine, ad essere il barbiere del paese. Vi prometto che troverò anche il mio sostituto affinché qui non muoia, al morire dell’uomo, anche il suo mestiere -.
Poi la pace avvolse tutto e don Peppe andò via sereno.